martedì 9 aprile 2013

Melchiorre Bega


Melchiorre Bega Architetto
Stefano Zironi
Editoriale Domus Milano 1983

Nel cercare di progettare una Green Station, con l’obbiettivo di rifunzionalizzare in chiave sostenibile un distributore di benzina, non si può ignorare tutto il processo, di sviluppo architettonico e sociale, che ha portato ad un esigenza smisurata di punti di rifornimento per le automobili. Nell’attenta analisi di questo processo è impossibile non tener presente quello che è il simbolo di questo processo: l’autostrada.  Questo termine venne utilizzato per la prima volta in un documento ufficiale del 1922 in cui l'ingegnere Piero Puricelli presentava il progetto dell'autostrada dei Laghi; con quel termine indicava quelle strade caratterizzate da un percorso rettilineo (per quanto possibile), senza ostacoli, caratterizzate da un'alta velocità raggiungibile, percorribili dai soli veicoli a motore. Sempre legata a questa importantissima maglia autostradale è la nascita nel 1947 del primo autogrill: un nuovo luogo di consumo specificatamente destinato agli automobilisti. Ad “inventarlo” è Mario Pavesi, ma in quei punti di ristoro si specchia tutta l’Italia del boom economico: la rete autostradale, la motorizzazione di massa e i nuovi consumi. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta la ristorazione autostradale italiana è gestita prevalentemente dalle aziende alimentari Motta, Alemagna e Pavesi e si deve agli architetti Angelo Bianchetti, Melchiorre Bega e Carlo Casati la progettazione di queste nuove aree di servizio: il primo lavorava per Pavesi, il secondo per Motta, il terzo coordinava invece il progetto per la Società Autostrade per l'impatto della struttura a ponte dal punto di vista paesaggistico.
L’analisi condotta da Zironi riguarda essenzialmente la figura di Bega non solo come uomo industriale ed architetto ma come grande interprete delle esigenze di un preciso periodo storico.
L’intero libro segue quelle che sono state le tappe fondamentali della vita di questo grande personaggio. Melchiorre Bega nacque a Caselle di Crevalcore nel 1898, si laureò in architettura all'Accademia di belle arti di Bologna. Dove ottiene la licenza di professore d’architettura. Contemporaneamente partecipa alla conduzione della ditta e fin dal 1919 si dedica a opere di architettura, soprattutto ristrutturazioni e arredi di alberghi, caffè, ristoranti, a Bologna, a Roma, a Milano e altre città d'Italia. Nel 1923 progetta il nuovo stabilimento Bega in via Maggiore a Bologna, che, diviso in reparti specializzati, ospita 250 operai. Bega è forse l'esempio più singolare di affermazione e di successo nel campo dell'architettura degli interni nel periodo fra le due guerre. Uno di quei casi in cui l'amalgama di talento, iniziativa, operosità, professionalità produce effetti concreti visibilissimi. L'elenco dei mobili disegnati da Bega ed eseguiti nella sua fabbrica non ha fine, tutti realizzati analizzando quelle che erano le vere esigenze delle persone, con un assoluta cura del dettaglio in quanto sosteneva che l’architettura non è fatta solo di grandi cose, ma di un insieme di piccoli elementi che rendono migliore la vita.
Dal 1941 al 1944 diresse, dopo il fondatore Gio Ponti, la rivista Domus, insieme a Pagano e Bontempelli, sottolineando l’appartenenza alla corrente razionalista, cercando di proporre soluzioni alla grande devastazione architettonica dei bombardamenti, anche con progetti che rimasero purtroppo solo teorici.
Nel dopoguerra, dopo essersi affermato sia in Italia che all’estero, si dedicò maggiormente alla progettazione architettonica ed urbanistica, è di questo periodo infetti la torre Galfa a Milano una parete di cristallo pulita e senza ostacoli a cento metri dal suolo, un architettura “pulita” che si scaglia verso il cielo.
Un analisi attenta e dettagliata viene condotta sulla lunga collaborazione che Bega ebbe con la Perugina e la Motta, che, come sottolinea il titolo del paragrafo, segnarono il grande balzo verso un’architettura di rappresentanza.
Con le strutture realizzate per queste due grandi ditte alimentari, a partire dalla ristrutturazione o nuova progettazione di negozi e padiglioni per le fiere, Bega sottolinea la necessità di superare i dati tecnici alla ricerca di nuove immagini e di una spiccata funzionalità. Non solo, la tensione creativa e un atteggiamento di costante attenzione all’evolversi della società e dei suoi costumi permettono all’architetto nella sua dinamicissima attività di essere presente e pronto a studiare i nuovi temi architettonici legati alla nascita delle nuove grandi arterie di traffico, le autostrade, che fanno parte dello sviluppo economico del nostro paese. Si rinnova così, nei progetti per gli autogrill commissionati da Motta, un aspetto della personalità di Bega: il saper eseguire interventi d’avanguardia con tecnologie avanzate in tempi brevissimi.
M. Bega dunque realizza lungo le autostrade luoghi di ristoro e i servizi che non sono interventi isolati ma razionalizzati all’intera dinamicità delle arterie.
Il primo Autogrill per la Motta tra Casal Pusterlengo e Piacenza è il Somalia del 1959 dove realizza un architettura al servizio dell’uomo, come lo sono i sui mobili, con particolare attenzione alle funzionalità impiantistica, ai percorsi e alle comodità di sosta.
Quasi contemporaneamente nasce il PONTE di canta gallo, il più grande posto di ristoro in Europa e il primo realizzato come un vero e proprio ponte a cavallo dell’arteria autostradale, come a voler riconnettere due sponde. Il ponte di ferro è tutto racchiuso da un serramento di alluminio e cristallo, smaltato e temperato in verde scuro, è una nave verde, un’oasi di vero ristoro vicino Bologna con: due bar, un ristorante, servizi, negozi e ascensori.
In fine troviamo altri esempi simili a questo come: il Mottagrill Tre Piani a Teano Est del 1964, quello sulla Roma-Napoli e quello a Badia al Piano.
Nel 1967 sul criterio del “ponte” nasce con Nervi il Motta Grill di Limena a Padova che sfrutta una struttura di ferro e c.a. ardita. Le indicazioni progettuali e le elaborazioni tecnologiche attorno a questo tema hanno fatto si che per questo tipo di ristoro si evidenziasse lo “stile Bega”.

Dall’analisi condotta da Zironi si intuisce perfettamente come a Bega con le sue architetture spetta il compito gravosissimo di ricostruire dopo la guerra , una risposta febbrile alla necessità di quegli anni che sottolinea in modo indistinguibile il “fare architettura” di questo straordinario architetto e industriale.
Non gli piaceva reclamare a gran voce la propri opera accompagnava la sua figura d’architetto con quella di dirigente di fabbrica cercando in ogni cosa l’eleganza dello stile ereditato modesta borghesia artigianale bolognese, dalla quale discendeva. Cercò di evolvere nel tempo grazie alla Ditta l’artigianato in industria rendendo così i beni accessibili a tutti pur  mantenendo sempre un elevato standard qualitativo. Per lui architettura e mobili se prodotti con una buona tecnica avevano ragione d’esistere anche se non lanciavano appelli o messaggi. Per questo dopo la guerra si senti in dovere di collaborare alla ricostruzione, come un buon tecnico, senza la pretesa di lasciare forti messaggi ma con la consapevolezza di progettare seguendo quelle ch erano le esigenze della popolazione seguendo un stile “moderno”.
Egli stesso afferma: ” Il mio progetto è, e vuole essere, schiettamente moderno, e, appunto perché tale, e soltanto come tale, può aspirare ad ambientarsi nella monumentalità circostante… è materialmente impossibile imitare, copiare le architetture passate per i temi paratici e artistici di oggi: se anche ciò fosse materialmente possibile, non lo sarebbero artisticamente e moralmente, per l’insincerità che ne deriverebbe. Tutte le epoche famose per l’arte hanno costruito “modernamente” e quelo che noi oggi chiamiamo “ambito” non è altro che una sistemazione, una fusione, risultati nel tempo dell’accostamento di epoche e stili diversissimi: accostamento non predisposto con spirito scolastico e timoroso, ma con attiva e viva sensibilità artistica da parte di costruttori che non temono di esprimersi nello stile “moderno” del loro tempo…”

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