lunedì 22 aprile 2013

Scacchiera

Materiali 



Fase1: VELOCITÀ 

La prima cosa da fare quando ci si trova di fronte ad un opera che non si conosce è quella di analizzarne la forma. Punto di partenza del progetto è una serie di muri; gli spazi compresi tra questi vengono articolati e manipolati per rispondere alle funzioni richieste dal programma. I muri si stratificano, guizzano lungo linee di forza centrifughe, si dilatano e interrompono, vi si incidono i tagli e gli squarci della aperture. Il manufatto rifiuta ogni lettura statica e frontale, non si può capirlo restando fermi, osservando da un solo punto di vista. La velocità delle forme dinamiche risulta essere essa stessa la scacchiera.



Prove di scacchiera:




Fase2: TESSITURE

Per Hadid è importantissimo ricollegare l'architettura con la natura e nel cercare di farlo utilizza il concetto di tessitura. Edificio e contesto, edificio e paesaggio appartengono alla stessa logica formativa, sono fatti delle stesse logiche formali, dagli stessi materiali concettuali in un intreccio non distinguibile a priori tra la logica formativa dell’uno -paesaggio- e quella dell’altro -architettura-. Per ciò tutta l'analisi del contesto  costituisce la scacchiera, non vi una netta separazione tra edifici e natura, qualsiasi elemento potrebbe benissimo alzarsi, ruotare... diventare altro in un crescente processo tensionale che mira all'accellerazioe, alla velocità.
Scacchiera:


Fase3: NUOVI SCENARI 

I singoli elementi della scacchiera possono scorrere e andare a disegnare nuovi spazi, anche quello della area di studio, per iniziare ad analizzare nuove possibili soluzioni.







domenica 21 aprile 2013

Vitra Fire Station


Architetto :
Zaha Hadid Architects
Architetto associato :
Patrik Schumacher
Promotore :
Vitra Internacional AG
Anno (s) di costruzione :
1991-1993
Spazio edificato :
852 m2
Località :
Weil am Rhein, Germania
Coordinate :
47 ° 36 '1 "N, 7 ° 36' 53" Vedere sulla mappa

L’opera è dichiaratamente mirata a risemantizzare l’area dai capannoni delle fabbriche, fra le quali, come un cuneo di forme dinamiche, essa si inserisce per improntare il sito a espressività formale e originalità. “Abbiamo svolto un’analisi del luogo, poiché era indispensabile capire come rendere “spazio aperto” questo non spazio”. Gli schizzi iniziali, come sempre per i progetti di Hadid, non si preoccupano di fornire un’idea definita, conclusa, quanto di immaginare spazialità suscettibili di svilupparsi progressivamente. L’edificio, pur segnando il luogo della sua forte identità attraverso la forma espressiva che lo connota, prevede che l’intorno sia suscettibile di mutamenti, e a tali trasformazioni il manufatto è predisposto. Punto di partenza del progetto è una serie di muri; gli spazi compresi tra questi vengono articolati e manipolati per rispondere alle funzioni richieste dal programma. I muri si stratificano, guizzano lungo linee di forza centrifughe, si dilatano e interrompono, vi si incidono i tagli e gli squarci della aperture. Il manufatto rifiuta ogni lettura statica e frontale, non si può capirlo restando fermi, osservando da un solo punto di vista. Va percepito, letto e compreso attraverso il tempo del movimento, secondo sequenze che si sviluppano perpendicolarmente e in profondità. Internamente realizzato in cemento armato e privo di ogni accenno di ornamento, esalta maggiormente la manipolazione spaziale tesa a creare cavità dinamiche. L’assenza di dettagli rende più eloquente “affastellarsi” e stratificarsi di volumi, disposti e riordinati in modo da rendere l’uso dell’edificio necessariamente esatto e rapido.

Questo edificio sorge all'interno del CAMPUS VITRA, sede della famosa manifattura di mobilia e complementi di arredo fondata a Basilea da Willi Fehlbaum nel 1950.
Il campus, che si estende per diversi ettari, è costituito da numerosi padiglioni ed edifici, commissionati da VITRA nel corso degli anni a famosi architetti di fama mondiale come Nicholas Grimshow, Alvaro Siza, Frank Gehry; Zaha Hadid; Tadao Ando; Buckminster Fuller e Herzog e de Meuron.
Frank Gehry in particolare ha realizzato il Vitra Center attuale sede operativa.
Questa "STAZIONE DEI POMPIERI" venne realizzata in seguito a un grande incendio verificatosi nel 1981. Il progetto fu assegnato a Zaha Hadid.
L'edificio accoglie un garage, servizi igienici, docce e spogliatoi per i pompieri e una sala conferenze con cucina e angolo cottura.
Costruito principalmente in calcestruzzo gettato in opera, la stazione, con le sue le forme sghembe e irregolari, contrasta con l'ordine ortogonale dei corpi di fabbrica adiacenti. Attualmente l'edificio funziona come uno spazio espositivo.
Molto interessanti sono gli interni, dove tutti gli elementi, pareti, piani inclinati, pavimenti, sedute, arredi, apparati luminosi, porte e finestre, concorrono a definire uno spazio non misurabile, dove l'illusione della profondità e dell'ampiezza è ricercata non per puro gioco, ma per conferire ad ambienti di per se angusti e contenuti, un insolita ariosità e confort visivo. L'evidente irregolarità non sacrifica, ma esalta l'ergonomia e l'uso razionale degli spazi.



Piccola riflessione: quando i pompieri scappano, ovvero quando un architettura diventa scultura 
In questo caso particolare i pompieri hanno fatto i bagagli e sono tornati nella loro vecchia caserma, reputando inutilizzabile e scomoda la nuova sede. Questo è quello che può considerarsi il più grande fallimento per un architetto. La parte estetica è indubbiamente avanguardista, le forme innovative sono il simbolo dell'abilità di modellare lo spazio, ormai un biglietto da visita della Zaha Hadid. Ma il fatto che oggi sia un museo e non una caserma come originariamente progettato è il segno che estetica e funzionalità non si sono mosse parallelamente.
Il tutto ruota intorno ad una semplice domanda: che significato attribuire al termine funzione?
Funzione, intesa come soddisfacimento di un'esigenza di tipo pratico e di comodità, è interpretazione riduttiva del bisogno dell'uomo di dare un senso alle cose.
È forse una non sedia la Red and Blue di Rietvelde perché scomodissima ma che contiene in sé tutto il senso del sedersi, o lo spremiagrumi di Stark, che non funziona, non è forse design

Saggio racconta Hadid

26. DELLE TESSITURE


L’origine del lavoro di Hadid è grafica e pittorica ed è proprio per questa via che l’architetto scopre che quello che aveva dipinto Klee non era solo opera grafica, ma un ipotesi di architettura.
Per  questa via, operando secondo una modalità concettuale, grafica e artistica, delinea un ipotesi originale e molto femminile del contesto. Contesto inteso come “tessitura” , collegabile facilmente ai suoi lavori grafici.


Per Hadid il disegnare e il dipingere è un atto fortemente strutturante il pensiero. Dipingere vuol dire lavorare alla creazione di uno spazio mentale, uno spazio di relazioni tra le parti. Sono relazioni astratte, grafiche e concettuali in una prima fase che si traducono solo attraverso una serie di numerosi passaggi successivi in strutturazioni propriamente architettoniche. Due opere sono simbolo di questo approccio:  The Peak a Hong Kong e Fire Station a Weil am Rhein. Qui affronta il tema del contesto e del rapporto architettura-ambiente proprio attraverso il concetto di tessitura e la conseguente relazione architettura-suolo. Edificio e contesto, edificio e paesaggio appartengono alla stessa logica formativa, sono fatti delle stesse logiche formali, dagli stessi materiali concettuali in un intreccio non distinguibile a priori tra la logica formativa dell’uno -paesaggio- e quella dell’altro -architettura-.
L’architettura alla fine di questo processo si propone come nuova naturalità, come paradigma sintetico che comprende il paesaggi, natura e costruito in un idea rifondativa dell’architettura stessa.



Hadid inoltre è attratta dalle forze dinamiche, guizzanti, veloci delle costruzioni: i terrapieni, le autostrade, gli svincoli… non appartengono per Hadid al mondo dell’ingegneria dei trasporti, ma entrano nel campo dell’architettura. Ibridandosi alla propria idea di paesaggio, diventano ispirazione per creare una forma di architettura a metà edificio a metà articolazione fisica e infrastrutturale di paesaggio
La stazione dei pompieri è un’architettura in cui appunto si intrecciano i livelli di tessitura e infrastruttura in una maniera nuova. La riflessione della Hadid sul paesaggio infrastruttura e sulle forme guizzanti non si esplica però solo nei programmi o nell'ubicazione del progetto, ma anche in situazioni urbane. In questi casi l’architetto fa comprendere come per affrontare il problema serve analizzare il contesto.

martedì 9 aprile 2013

green STATION


Melchiorre Bega


Melchiorre Bega Architetto
Stefano Zironi
Editoriale Domus Milano 1983

Nel cercare di progettare una Green Station, con l’obbiettivo di rifunzionalizzare in chiave sostenibile un distributore di benzina, non si può ignorare tutto il processo, di sviluppo architettonico e sociale, che ha portato ad un esigenza smisurata di punti di rifornimento per le automobili. Nell’attenta analisi di questo processo è impossibile non tener presente quello che è il simbolo di questo processo: l’autostrada.  Questo termine venne utilizzato per la prima volta in un documento ufficiale del 1922 in cui l'ingegnere Piero Puricelli presentava il progetto dell'autostrada dei Laghi; con quel termine indicava quelle strade caratterizzate da un percorso rettilineo (per quanto possibile), senza ostacoli, caratterizzate da un'alta velocità raggiungibile, percorribili dai soli veicoli a motore. Sempre legata a questa importantissima maglia autostradale è la nascita nel 1947 del primo autogrill: un nuovo luogo di consumo specificatamente destinato agli automobilisti. Ad “inventarlo” è Mario Pavesi, ma in quei punti di ristoro si specchia tutta l’Italia del boom economico: la rete autostradale, la motorizzazione di massa e i nuovi consumi. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta la ristorazione autostradale italiana è gestita prevalentemente dalle aziende alimentari Motta, Alemagna e Pavesi e si deve agli architetti Angelo Bianchetti, Melchiorre Bega e Carlo Casati la progettazione di queste nuove aree di servizio: il primo lavorava per Pavesi, il secondo per Motta, il terzo coordinava invece il progetto per la Società Autostrade per l'impatto della struttura a ponte dal punto di vista paesaggistico.
L’analisi condotta da Zironi riguarda essenzialmente la figura di Bega non solo come uomo industriale ed architetto ma come grande interprete delle esigenze di un preciso periodo storico.
L’intero libro segue quelle che sono state le tappe fondamentali della vita di questo grande personaggio. Melchiorre Bega nacque a Caselle di Crevalcore nel 1898, si laureò in architettura all'Accademia di belle arti di Bologna. Dove ottiene la licenza di professore d’architettura. Contemporaneamente partecipa alla conduzione della ditta e fin dal 1919 si dedica a opere di architettura, soprattutto ristrutturazioni e arredi di alberghi, caffè, ristoranti, a Bologna, a Roma, a Milano e altre città d'Italia. Nel 1923 progetta il nuovo stabilimento Bega in via Maggiore a Bologna, che, diviso in reparti specializzati, ospita 250 operai. Bega è forse l'esempio più singolare di affermazione e di successo nel campo dell'architettura degli interni nel periodo fra le due guerre. Uno di quei casi in cui l'amalgama di talento, iniziativa, operosità, professionalità produce effetti concreti visibilissimi. L'elenco dei mobili disegnati da Bega ed eseguiti nella sua fabbrica non ha fine, tutti realizzati analizzando quelle che erano le vere esigenze delle persone, con un assoluta cura del dettaglio in quanto sosteneva che l’architettura non è fatta solo di grandi cose, ma di un insieme di piccoli elementi che rendono migliore la vita.
Dal 1941 al 1944 diresse, dopo il fondatore Gio Ponti, la rivista Domus, insieme a Pagano e Bontempelli, sottolineando l’appartenenza alla corrente razionalista, cercando di proporre soluzioni alla grande devastazione architettonica dei bombardamenti, anche con progetti che rimasero purtroppo solo teorici.
Nel dopoguerra, dopo essersi affermato sia in Italia che all’estero, si dedicò maggiormente alla progettazione architettonica ed urbanistica, è di questo periodo infetti la torre Galfa a Milano una parete di cristallo pulita e senza ostacoli a cento metri dal suolo, un architettura “pulita” che si scaglia verso il cielo.
Un analisi attenta e dettagliata viene condotta sulla lunga collaborazione che Bega ebbe con la Perugina e la Motta, che, come sottolinea il titolo del paragrafo, segnarono il grande balzo verso un’architettura di rappresentanza.
Con le strutture realizzate per queste due grandi ditte alimentari, a partire dalla ristrutturazione o nuova progettazione di negozi e padiglioni per le fiere, Bega sottolinea la necessità di superare i dati tecnici alla ricerca di nuove immagini e di una spiccata funzionalità. Non solo, la tensione creativa e un atteggiamento di costante attenzione all’evolversi della società e dei suoi costumi permettono all’architetto nella sua dinamicissima attività di essere presente e pronto a studiare i nuovi temi architettonici legati alla nascita delle nuove grandi arterie di traffico, le autostrade, che fanno parte dello sviluppo economico del nostro paese. Si rinnova così, nei progetti per gli autogrill commissionati da Motta, un aspetto della personalità di Bega: il saper eseguire interventi d’avanguardia con tecnologie avanzate in tempi brevissimi.
M. Bega dunque realizza lungo le autostrade luoghi di ristoro e i servizi che non sono interventi isolati ma razionalizzati all’intera dinamicità delle arterie.
Il primo Autogrill per la Motta tra Casal Pusterlengo e Piacenza è il Somalia del 1959 dove realizza un architettura al servizio dell’uomo, come lo sono i sui mobili, con particolare attenzione alle funzionalità impiantistica, ai percorsi e alle comodità di sosta.
Quasi contemporaneamente nasce il PONTE di canta gallo, il più grande posto di ristoro in Europa e il primo realizzato come un vero e proprio ponte a cavallo dell’arteria autostradale, come a voler riconnettere due sponde. Il ponte di ferro è tutto racchiuso da un serramento di alluminio e cristallo, smaltato e temperato in verde scuro, è una nave verde, un’oasi di vero ristoro vicino Bologna con: due bar, un ristorante, servizi, negozi e ascensori.
In fine troviamo altri esempi simili a questo come: il Mottagrill Tre Piani a Teano Est del 1964, quello sulla Roma-Napoli e quello a Badia al Piano.
Nel 1967 sul criterio del “ponte” nasce con Nervi il Motta Grill di Limena a Padova che sfrutta una struttura di ferro e c.a. ardita. Le indicazioni progettuali e le elaborazioni tecnologiche attorno a questo tema hanno fatto si che per questo tipo di ristoro si evidenziasse lo “stile Bega”.

Dall’analisi condotta da Zironi si intuisce perfettamente come a Bega con le sue architetture spetta il compito gravosissimo di ricostruire dopo la guerra , una risposta febbrile alla necessità di quegli anni che sottolinea in modo indistinguibile il “fare architettura” di questo straordinario architetto e industriale.
Non gli piaceva reclamare a gran voce la propri opera accompagnava la sua figura d’architetto con quella di dirigente di fabbrica cercando in ogni cosa l’eleganza dello stile ereditato modesta borghesia artigianale bolognese, dalla quale discendeva. Cercò di evolvere nel tempo grazie alla Ditta l’artigianato in industria rendendo così i beni accessibili a tutti pur  mantenendo sempre un elevato standard qualitativo. Per lui architettura e mobili se prodotti con una buona tecnica avevano ragione d’esistere anche se non lanciavano appelli o messaggi. Per questo dopo la guerra si senti in dovere di collaborare alla ricostruzione, come un buon tecnico, senza la pretesa di lasciare forti messaggi ma con la consapevolezza di progettare seguendo quelle ch erano le esigenze della popolazione seguendo un stile “moderno”.
Egli stesso afferma: ” Il mio progetto è, e vuole essere, schiettamente moderno, e, appunto perché tale, e soltanto come tale, può aspirare ad ambientarsi nella monumentalità circostante… è materialmente impossibile imitare, copiare le architetture passate per i temi paratici e artistici di oggi: se anche ciò fosse materialmente possibile, non lo sarebbero artisticamente e moralmente, per l’insincerità che ne deriverebbe. Tutte le epoche famose per l’arte hanno costruito “modernamente” e quelo che noi oggi chiamiamo “ambito” non è altro che una sistemazione, una fusione, risultati nel tempo dell’accostamento di epoche e stili diversissimi: accostamento non predisposto con spirito scolastico e timoroso, ma con attiva e viva sensibilità artistica da parte di costruttori che non temono di esprimersi nello stile “moderno” del loro tempo…”